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L'INNO NELLE RELIGIONI GRECHE E ROMANE

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In alcune pagine precedenti abbiamo dato un'introduzione alle principali raccolte di inni pagani greci: gli inni omerici, quelli orfici, quelli di Callimaco e alcuni inni filosofici, tutti composti in versi. Esistono però, anche se tardi, alcuni inni in prosa e soprattutto è esistita una teoria sugli inni; in questa pagina tratteremo degli inni in generale, mentre in una di prossima pubblicazione ci concentreremo sugli inni in prosa e sulla trattazione teorica del retore Menandro.

In origine, la parola greca hymnos non indicava specificamente una lode agli dei, ma una lode in generale: la troviamo usata in questo senso nelle tragedie greche, anche quando l'oggetto della lode sono uomini. Soltanto più avanti, in epoca ellenistica, alcuni scrittori greci cominciano a dare una cornice teorica al concetto di inno; ma a questo punto, di inni ne sono stati già composti tanti, a partire dagli inni omerici per arrivare a quelli di Callimaco, contemporanei a queste prime teorie. In mezzo ci sono diverse composizioni liriche, le odi di Pindaro, ma anche le opere di Platone che in qualche caso contengono degli inni. E proprio Platone, diversi secoli dopo, più o meno durante il regno di Diocleziano, a cavallo tra III e IV secolo e.v., sarà indicato come modello per gli inni in prosa dal retore Menandro, da non confondere con il Menandro delle commedie che è invece a cavallo tra il IV e il III secolo ma a.e.v.. Questo retore Menandro ci ha lasciato una classificazione degli inni in base al loro scopo o contenuto: inni che narrano del rapporto occasionale tra uomo e divinità, inni che rapportano le divinità agli elementi naturali, inni che narrano un evento mitologico, inni che enumerano la genealogia di una o più divinità, inni fittizi che narrano episodi inventati o lodano divinità inventate, inni di deprecazione e inni di preghiera. Da questa classificazione è chiaro che siamo oltre il concetto di inno come lode. Menandro inoltre sosteneva la superiorità dell'inno in poesia, perché sarebbe una forma di partecipazione al divino e il poeta comunque godrebbe di maggiore libertà di composizione rispetto a chi scrive in prosa. Quest'ultima invece, secondo Menandro, sarebbe totalmente umana, quindi meno partecipe del divino, anche se comunque l'inno in prosa ha il suo valore. Torneremo, come detto poco sopra, in un'altra pagina sulle teorie di Menandro.

Elio Aristide, invece, che scrive i suoi Discorsi Sacri prima del retore Menandro, sostiene la superiorità della prosa sulla poesia e proprio perché umana: secondo Aristide, la prosa sarebbe una forma di espressione più antica e naturale dell'uomo, che quindi consentirebbe di sviluppare con gli Dèi un rapporto più spontaneo. Nonostante quello che dice Elio Aristide, la poesia è stata certamente la prima forma in cui sono nati gli inni. Probabilmente è anche per questo che studiosi come Walter Otto vedono nel poeta, più che nello scrittore di prosa, colui che dall'apparizione della divinità crea il mito e il culto. Anche in epoca cristiana, a partire dal Medioevo con Boccaccio, per continuare poi nel Rinascimento e nel Seicento si afferma l'idea che il poeta anche pagano sia comunque un teologo, con la differenza che per l'idea cristiana questo equivaleva a sostenere l'esistenza di verità spirituali di fatto cristiane ma espresse anche da poeti non cristiani.

Nella cultura greca antica invece, i poeti erano ritenuti una sorta di teologi, ma nel senso che attraverso le loro opere davano una descrizione, una forma al mito. Anche se li si riteneva ispirati o comunque in contatto con una divinità questo non voleva dire assolutamente che la loro parola fosse ritenuta la parola della divinità. Il valore dell'inno in poesia e del cantore stesso, poeta, aedo, o bardo che fosse, è comune anche nelle culture che non ci hanno lasciato molte testimonianze scritte del loro periodo pagano, e mi riferisco in particolare a quelle celtica e germanica. Sappiamo che anche in queste culture chi raccontava le storie degli Dèi aveva una grande importanza, e sappiamo ad esempio che Odino nella mitologia germanica è legato alla poesia e avrebbe conquistato le rune sacrificando un occhio e rimanendo appeso nove giorni all'albero del mondo per ottenere anche la conoscenza da trasmettere attraverso le rune. Quindi, anche se non ci rimane niente di scritto in epoca che non sia cristiana, possiamo supporre che anche in queste culture l'inno agli dei (o l'invocazione o la genealogia o il racconto mitologico) fosse comunque importante.

Per tornare all'ambito più strettamente classico, il mondo greco finisce per guidare anche quello latino nell'uso degli inni. Prima del contatto con la Grecia, a Roma infatti troviamo pochi inni: i canti dei sacerdoti Saliari e degli Arvales, strettamente legati alle celebrazioni. Solo con la mescolanza l'inno diventa un genere letterario anche a Roma e autori famosi come Catullo e Orazio scrivono inni, non più legati o non necessariamente ad una celebrazione precisa.

La potenza emotiva dell'inno, in particolare poetico, non diminuisce nel corso dei secoli: tra le ultime composizioni del paganesimo soprattutto neoplatonico, prima dell'affermazione del cristianesimo, ci sono proprio degli inni, gli inni di Proclo e poi quelli di Giuliano a Helios e alla madre degli dei. Ultimi a sparire, gli inni pagani saranno poi i primi a rinascere, sia come testi antichi da riscoprire, si veda la traduzione di Marsilio Ficino degli inni orfici, sia come via per far rinascere effettivamente il culto degli Dèi, come il tentativo di Pletone ci dimostra.

Riferimenti

Manuela Simeoni

 

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