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FILOSOFE DELL'ANTICHITÀ: NON SOLO IPAZIA

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Delle filosofe antiche Ipazia è certamente la più nota, ma più per la sua fine tragica che per le sue teorie.

Ipazia non fu l'unica donna filosofo dell'antichità; ma come i secoli di cristianesimo hanno filtrato e distorto dal loro punto di vista il ruolo femminile nella mitologia e nella religione, così sono poco note o nominate di rado o di sfuggita, le donne che nell'antichità diedero un contributo alla filosofia, tradizionalmente considerata territorio maschile. L'elenco che segue non è esauriente e non esaurisce il contributo di queste donne alla disciplina, né lo analizza, ma vuole in qualche modo ricordarne l'esistenza. Il nostro non è nemmeno un giudizio di valore: alcune delle idee qui riassunte possono essere senz'altro discutibili, sia dal punto di vista del contenuto che per il fatto di essere tramandate per frammenti di filosofi posteriori o estratte dal contesto. Quello che presentiamo è una sorta di catalogo.

Parte II: filosofe della classicità e della tarda antichità

Cleobulina di Rodi: figlia di Cleobulo, uno dei sette saggi, visse probabilmente nel VI secolo a.e.v.; le testimonianze ce la presentano soprattutto come retore e come donna saggia e competente anche in affari di stato.

Aspasia di Mileto: vissuta nell'Atene classica è nota soprattutto come etera di Pericle, ma apparteneva al circolo di Pericle ed era nota per la sua abile retoriche, quindi filosoficamente doveva essere vicina alle posizioni della sofistica. Almeno questo è quanto ci dà ad intendere Platone nel Menesseno; non abbiamo infatti altre testimonianze, dirette o indirette, di sue opere.

Diotima di Mantinea: anche per Diotima abbiamo testimonianze solo platoniche e anzi è spesso ritenuta un personaggio fittizio. Nel Simposio di Platone compare come sacerdotessa di Mantinea che avrebbe avuto una conversazione sull'amore con Socrate, che la riferisce agli altri partecipanti al banchetto. Sono però gli interpreti moderni del Simposio che accostano per forza il concetto di bellezza espresso da Diotima alle Idee o Forme (intese come concetto) di Platone: il concetto di bellezza di Diotima andrebbe casomai accostato a quello che Platone considera l'Idea di Bene mentre il concetto di Bene espresso da Diotima non è universale e non è un mezzo, come invece sono le Idee di Platone. Il Bene di Diotima è l'acquisizione dell'immortalità tramite riproduzione di sé attraverso l'idea di bello. Il linguaggio di Diotima anche nella testimonianza di Platone è quasi parmenideo. Sempre nei testi di Platone, Diotima affronta il problema dell'immortalità; contrariamente però alle dottrine platoniche, secondo Diotima l'anima non sarebbe immortale, ma l'immortalità di una persona starebbe nel perpetuarsi delle sue qualità nei suoi discendenti. L'anima di Diotima non si reincarna come quella di Platone (che oltretutto riteneva che l'anima di un uomo di scarsa virtù si reincarnasse in una donna), ma si ricostituisce in parte: se non si riesce a generare un "figlio" della propria anima, che non è necessariamente un figlio fisico, ma piuttosto l'oggetto del proprio amore, tutto cessa alla morte del corpo. Eros è questo impulso a generare un "figlio" della propria anima. Tutte queste differenze rispetto alle dottrine platoniche hanno portato gli studiosi a chiedersi se e in che misura Diotima possa essere solo un'invenzione di Platone, un personaggio funzionale all'esposizione delle teorie di quest'ultimo. Potrebbe essere una figura creata apposta per contestare le teorie non platoniche sull'amore, l'anima e l'immortalità, ma a chi appartenevano le teorie che Platone vuole contestare? Alcuni studiosi che confutano l'esistenza storica di Diotima sulla base del fatto che nessun altro testimone la nomini, rafforzano la loro tesi con la leggenda secondo cui Diotima avrebbe intercesso presso gli dei per allontanare una peste da Atene e sarebbe perciò strano che, dato il miracolo, né Tucidide, né Senofane, né Aristofane la nominino mai: qui però si apre un discorso sul significato del sacerdozio presso i greci e sul modo di vedere questo genere di intercessione da parte degli studiosi, che secondo me è un po' troppo cristianocentrico, che ci porterebbe decisamente fuori strada. Va detto che anche di altri filosofi dell'antichità abbiamo solo testimonianze indirette: se anche la Diotima del Simposio non è precisamente la Diotima storica (così come il Socrate di Platone può non essere esattamente il Socrate storicamente esistito), non si vede perché Platone dovesse assegnare proprio a lei il pensiero che sarebbe stato di un altro filosofo ben identificato e che Platone avrebbe comunque potuto inserire nel dialogo, a meno che le opinioni di Diotima non fossero opinioni comuni a quel tempo, per cui occorreva un personaggio fittizio per esprimerle. Non è poi del tutto vero che nessun altro autore nomini Diotima: è citata come filosofa (assieme a Targelia e Aspasia) anche da Luciano e da altri a lui posteriori; è possibile che un personaggio fittizio avesse così tanta influenza da essere elencato tra altri realmente esistiti? Non ci sono quindi argomentazioni definitive a favore o contrarie alla storicità di Diotima, che possiamo assumere se non esistito come presentato, almeno immagine di un personaggio reale.

Arete di Cirene: figlia di Aristippo, secondo diversi autori gli succedette alla guida della scuola di Cirene. Aristippo fu discepolo di Socrate; la scuola cirenaica fu tra le prime proponenti di una dottrina edonistica, ponendo il piacere (non inteso come semplice assenza di dolore) come unico criterio per la morale. Il piacere si contrappone al dolore, il primo moto gentile dell'anima, il secondo moto violento: l'anima non può avere riposo poiché la vita è la somma dei moti dell'anima. Il piacere non dev'essere però smodato, perché un eccessivo eccitamento dell'anima impedisce a questa di riflettere con calma e quindi godersi il piacere stesso: il piacere infatti non va inteso come mera gratificazione sensoriale, ma come percezione e quindi godimento di quella gratificazione, che può anche non essere sensoriale ma intellettuale (es. riproducendo un godimento fittizio tramite l'arte). Le azioni virtuose sono quelle che portano ad un risultato piacevole; l'autonomia dell'anima si raggiunge non quindi controllando tutti i piaceri, ma restando indifferenti a tutti i piaceri diversi da quello di cui si sta godendo nel momento presente: tutti i piaceri sono uguali in questo senso perché è la sensazione di piacere quello che conta e non ciò che la provoca o potrebbe provocare. Obiettivo di questa filosofia è la ricerca del piacere in ogni momento presente.

Assiotea di Fliunte: discepola di Platone e poi di Speusippo, visse nel IV secolo a.e.v. Secondo Temistio si appassionò alla filosofia platonica dopo la lettura della Repubblica e secondo Dicearco si vestì da uomo per essere ammessa alle lezioni di Platone.

Lastenia di Mantinea: discepola di Speusippo come Assiotea, è nominata da Diogene Laerzio, ma non abbiamo altre notizie.

Ipparchia la cinica: secondo quello che racconta Laerzio, abbracciò la vita da cinica per sposare Cratete, minacciando il suicidio se i genitori non avessero acconsentito. Visse tra il IV e il III secolo a.e.v.; di lei non ci perviene nulla, anche se il Lessico Suda dice che scrisse alcune lettere ad un filosofo della scuola di Cirene, Teodoro detto l'Ateo di cui abbiamo alcuni stralci relativi alla polemica sollevata da costui sull'adesione di Ipparchia alla filosofia cinica, a suo dire non adatta ad una donna.

Giulia Domna: non proprio una filosofa, perché di suo non ci restano scritti filosofici veri e propri, ma studiosa di filosofia e promotrice di un circolo culturale, fu anche questa imperatrice del II secolo e.v., moglie di Settimio Severo. In particolare chiese a Filostrato di sistemare in maniera gradevole da leggere le memorie sulla vita del neopitagorico Apollonio di Tiana scritte dal discepolo Damis.

Asclepigenia di Atene: contemporanea, poco più tarda, di Ipazia, insegnò alla scuola neoplatonica di Atene mentre suo padre, Plutarco il giovane, ne era alla guida. A quell'epoca la scuola di Atene cercava di unificare i principi della filosofia platonica con quelli della filosofia aristotelica, opponendosi alle correnti teurgiche. Asclepigenia ereditò la guida della scuola nel 430 assieme al fratello Hieri e al codiscepolo Siriano. Fu insegnante di Proclo. In un'epoca in cui andava crescendo il seguito del cristianesimo, che predicava l'accettazione di qualsiasi evento anche tragico dietro la speranza della salvezza, la scuola neoplatonica di cui anche Asclepigenia faceva parte insegnava che la corretta comprensione della metafisica e della cosmologia potevano dare la possibilità di influire e di manipolare il fato con la teurgia e la magia. La contemplazione dell'Assoluto insegnata da Plotino aveva una componente più mistica ad Atene rispetto ad Alessandria, e avveniva attraverso lo studio della metafisica anziché delle leggi matematiche e scientifiche come ad Alessandria sotto Ipazia. Asclepigenia si colloca in quella fase dell'Accademia tra Plotino e Proclo, con il progressivo riarrangiamento della religione greca all'interno della metafisica di Plotino; nel percorso verso l'unificazione con l'Uno le divinità tradizionali venivano collocate ai livelli più alti della conoscenza metafisica, accessibile tramite la liberazione dai sensi e il raggiungimento dell'illuminazione ovvero di gradi sempre maggiori di astrazione. L'illuminazione del corpo e la sua purificazione avvengono tramite il rituale teurgico e il loro risultato è la fuga mistica dalla materialità.

Vai alla prima parte: le pitagoriche

Per approfondire

Manuela Simeoni

 

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